Le ASD e il Safeguarding: cosa bisogna fare per garantire la regolarità normativa?

Pubblicato il 25 settembre 2025 alle ore 15:21

Dal 2024 ad oggi, il termine safeguarding è entrato con insistenza nel lessico dello sport italiano. Per alcuni può sembrare una parola astratta, quasi “campata per aria”, eppure è destinata a diventare un riferimento imprescindibile per chiunque operi all’interno di una società o associazione sportiva. Perché? Perché il movimento sportivo internazionale – dalle Nazioni Unite al Comitato Olimpico Internazionale, passando per il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea – sta orientando le proprie politiche verso una tutela sempre più ampia dei minori, non solo rispetto agli abusi sessuali ma anche contro ogni forma di violenza psicologica, discriminazione, maltrattamento o esclusione.

I dati recenti parlano chiaro: ricerche promosse a livello europeo e nazionale hanno messo in evidenza che una quota significativa di giovani atleti dichiara di aver subito episodi di violenza, umiliazioni, pressioni indebite o vere e proprie molestie durante la loro esperienza sportiva. Anche in Italia, la prima indagine sistematica sul fenomeno (2023) ha rivelato che circa 4 ragazzi su 10 hanno avuto esperienze di abuso nello sport in età minorile.

Questa presa d’atto ha condotto, nel nostro Paese, a un passaggio normativo decisivo: con la riforma dello sport (D.Lgs. 36/2021 e D.Lgs. 39/2021) è diventato obbligatorio per le ASD e le SSD nominare un Responsabile della protezione dei minori, adottare codici di condotta interni e attivare procedure di prevenzione. Allo stesso tempo, il CONI e le federazioni sportive – dalla FIGC alla FIPAV, fino al CIP – hanno avviato percorsi di formazione e linee guida, mentre l’ONU e l’UNICEF richiamano costantemente gli Stati a garantire ambienti sportivi sicuri, inclusivi e rispettosi dei diritti dei bambini.

In questo scenario, parlare di safeguarding significa riconoscere una trasformazione culturale che investe tutto il sistema sportivo. Le associazioni e società devono essere pronte e strutturate per garantire ai minori un ambiente realmente protetto da ogni forma di abuso, esplicito o sottile, individuale o sistemico. 

Che cos’è il safeguarding

Il termine safeguarding indica, letteralmente, l’insieme delle misure messe in campo per “mettere al sicuro” i minori e le persone vulnerabili. In ambito sportivo, questo concetto si traduce in un quadro di protezione complessiva che va ben oltre la difesa dalle sole condotte penalmente rilevanti (molestie, abusi sessuali o violenze fisiche), e che integra la prevenzione di tutte quelle forme di pressione, umiliazione, discriminazione e sfruttamento che possono compromettere lo sviluppo armonico dei giovani atleti.

In altre parole, safeguarding significa creare e mantenere un ambiente sportivo sano, dove ciascun bambino o ragazzo possa crescere senza paura, rispettato nella sua dignità, sostenuto nei suoi bisogni e valorizzato nel suo percorso sportivo ed educativo. Ovviamente, comporta regole precise, responsabilità individuate, strumenti pratici di prevenzione e di intervento.

Un allenatore che utilizza un linguaggio offensivo, un dirigente che ignora le segnalazioni dei genitori, un contesto che tollera il bullismo o la marginalizzazione di un giovane atleta: tutti questi comportamenti, se trascurati, costituiscono violazioni del safeguarding.

Dunque, il safeguarding è un sistema di regole e attenzioni che restituisce fiducia alle famiglie, che rafforza la credibilità delle società e che, soprattutto, mette al centro i diritti dei minori, come già richiamato dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Come funziona in Italia

Il nostro ordinamento ha scelto di affrontare il tema del safeguarding come un vero e proprio obbligo normativo. La Riforma dello sport – attraverso il D.Lgs. 36/2021 e il D.Lgs. 39/2021 – ha introdotto strumenti precisi per assicurare che la tutela dei minori diventi parte integrante dell’organizzazione delle ASD e delle SSD.

Il primo adempimento è la nomina di un Responsabile della protezione dei minori. Deve essere individuato formalmente, avere competenze specifiche e assumere il compito di vigilare sull’attuazione delle politiche di prevenzione. È la persona a cui dirigenti, tecnici, volontari e famiglie possono rivolgersi in caso di dubbi o segnalazioni.

Il secondo tassello è l’adozione di un codice di condotta interno, obbligatorio per legge. Ogni società deve dotarsi di regole scritte che stabiliscano chiaramente i comportamenti ammessi e quelli vietati: dall’uso del linguaggio ai rapporti tra adulti e minori, dalle modalità di comunicazione digitale fino alla gestione delle trasferte e degli spogliatoi. Questi codici vanno condivisi con tutto lo staff, con gli atleti e con le famiglie, per creare consapevolezza e responsabilità diffusa.

Un ulteriore tassello riguarda l’adozione dei Modelli Organizzativi e di Gestione (MOG). Si tratta di strumenti previsti dagli stessi enti che provvedono all'affiliazione, adattati al contesto sportivo dalla riforma, che servono a prevenire rischi e responsabilità derivanti da reati o comportamenti illeciti. In pratica, il MOG è un documento che descrive le procedure interne, le regole di condotta, i sistemi di controllo e le misure disciplinari che la società si impegna ad applicare per tutelare i propri tesserati, con particolare attenzione ai minori. Esso deve essere adottato dagli organi dirigenti e condiviso con tutti i membri dell’associazione, tesserati compresi.

Infine, federazioni e organismi sportivi nazionali (CONI, CIP, FSN, DSA, EPS) hanno il compito di vigilare e accompagnare le società nell’attuazione di questi adempimenti, fornendo linee guida, modelli organizzativi e percorsi di formazione. In questo senso, la tutela dei minori diventa una responsabilità collettiva che parte dalle singole ASD e si estende all’intero sistema sportivo.

Cosa deve fare un dirigente

Tradurre il principio del safeguarding in pratica quotidiana è compito innanzitutto dei dirigenti. Si tratta di una responsabilità di governance che qualifica la serietà e l’affidabilità di una società sportiva.

Il primo passo è la nomina formale del Responsabile della protezione dei minori, figura prevista dalla riforma e centrale per la prevenzione. Occorre individuare una persona competente, dotarla di autonomia, riconoscerne pubblicamente il ruolo e renderla un punto di riferimento noto ad atleti, famiglie e tecnici.

Segue l’adozione del codice di condotta, documento obbligatorio che stabilisce regole chiare sui comportamenti consentiti e vietati nei rapporti con i minori. Il codice deve essere scritto con chiarezza, approvato dagli organi sociali e soprattutto reso visibile e condiviso: affisso nei locali, spiegato agli allenatori, consegnato ai genitori. 

Il terzo ambito riguarda la formazione sistematica. Dirigenti, allenatori, istruttori e volontari devono essere formati anche sulla capacità di riconoscere segnali di disagio, di interagire correttamente con i ragazzi, di sapere come e a chi segnalare eventuali abusi. Una società che investe in formazione costruisce un ambiente più sicuro e guadagna fiducia dalle famiglie.

Non meno importante è predisporre procedure di segnalazione riservate ed efficaci, che permettano a chiunque – atleta, genitore, collaboratore – di comunicare in modo sicuro eventuali condotte sospette. Tali procedure devono garantire riservatezza, rapidità di risposta e collegamento con le autorità competenti quando necessario.

Infine, l’adozione dei Modelli Organizzativi e di Gestione (MOG) rappresenta il quadro strutturale di questo impegno: procedure interne, protocolli di controllo, misure disciplinari, fino alla loro esposizione nei locali sociali come segno tangibile di trasparenza e responsabilità.

Cosa succede all’estero

Il safeguarding non è una peculiarità italiana: negli ultimi anni è diventato una priorità globale, con modelli già consolidati che possono offrire spunti preziosi alle nostre associazioni.

Nel Regno Unito, ad esempio, ogni club sportivo – dal calcio di base alla ginnastica – deve nominare un Designated Safeguarding Officer, cioè un referente specifico per la tutela dei minori. Le linee guida del Child Protection in Sport Unit (NSPCC) hanno fissato standard vincolanti: codici di condotta, controlli sui precedenti penali di allenatori e volontari (i cosiddetti DBS checks), corsi di formazione obbligatori e procedure chiare di segnalazione.

Negli Stati Uniti la svolta è arrivata dopo casi drammatici, come lo scandalo della ginnastica legato al medico Larry Nassar. Da allora il Congresso ha approvato il Safe Sport Act (2017), creando il U.S. Center for SafeSport, un ente indipendente con poteri investigativi e disciplinari. Tutte le federazioni olimpiche e paralimpiche sono tenute a rispettarne le regole: corsi di formazione annuali per allenatori e staff, codici di comportamento uniformi, divieto di contatti non sorvegliati tra adulti e minori (Minor Athlete Abuse Prevention Policies), e soprattutto un sistema centralizzato di raccolta e gestione delle denunce.

Il quadro internazionale nella sua interezza dimostra che il safeguarding è diventato un requisito imprescindibile per praticare sport in modo sicuro. 

Un esempio concreto

Per comprendere quanto il safeguarding sia necessario, basta guardare ad alcuni episodi recenti accaduti nel nostro Paese. Nel 2025, a Roma, un maestro di taekwondo è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale aggravata su tre minorenni che allenava. Si trattava di un istruttore stimato, inserito nel tessuto sportivo locale, capace di conquistare la fiducia delle famiglie: proprio questa fiducia gli ha permesso di agire indisturbato fino a quando le prime segnalazioni non hanno portato le autorità a indagare.

Episodi simili si sono verificati anche in altri sport: dal basket al nuoto, dalla ginnastica ad altre discipline di base. In molti casi si è trattato anche di pressioni indebite, umiliazioni costanti, linguaggi offensivi, pratiche di allenamento dannose. Spesso i ragazzi e le ragazze coinvolti non hanno trovato la forza o i canali adeguati per denunciare subito: la paura di non essere creduti, il timore di ripercussioni, l’assenza di un referente chiaro a cui rivolgersi hanno allungato i tempi della rivelazione.

Qui sta la differenza che il safeguarding può fare: la presenza di un Responsabile della protezione dei minori, l’adozione di procedure di segnalazione sicure e la diffusione di codici di condotta chiari avrebbero potuto consentire interventi più rapidi, proteggere le vittime e prevenire ulteriori episodi.

Conclusione

Il safeguarding è un cambiamento culturale che investe l’intero sistema sportivo. Significa riconoscere che lo sport, per essere davvero formativo, deve essere prima di tutto sicuro. Significa capire che i ragazzi e le ragazze hanno bisogno anche di adulti responsabili, capaci di garantire un ambiente rispettoso, privo di abusi e discriminazioni.

Per le ASD e le SSD, le nuove norme non chiedono di appesantire la vita delle società: chiedono di fare chiarezza, di adottare procedure semplici, di nominare referenti, di diffondere codici di condotta e modelli organizzativi. In altre parole, di costruire un clima di fiducia. Le famiglie, oggi più che mai, scelgono le società sportive anche sulla base della loro credibilità e della loro capacità di tutelare i minori.

Sta a ogni dirigente trasformare queste regole in prassi, e questa prassi in cultura. Perché uno sport che sa proteggere è uno sport che educa, che attrae, che dura nel tempo.